«Dovunque, intorno a noi, persone che parlano da sole. Passeggiano e non guardano nessuno, gli occhi puntati di fronte a loro. Discutono, ridono, corrugano la fronte, alzano la voce. Ascoltano, rispondono piccate oppure divertite. Come fossero da sole. Perché effettivamente lo sono. Fisicamente. Sole in mezzo agli altri che sciamano intorno a loro. Ma insieme ad altre persone lontane, che parlano con loro […] Dovunque sciamano persone che parlano ad alta voce da sole, oppure dialogano con gli altri e con il mondo per sms.

Le cuffie alle orecchie, non sentono e non vedono. Gli altri. Senza differenze né limiti d'età. Persone di ogni generazione. Di ogni ceto. Affollano ogni luogo e ogni spazio. Le piazze, le strade, gli uffici, i treni, gli autobus.

Una società autistica. Dove l'altro è una presenza lontana. Una voce incerta e intermittente. Un dito che batte su una tastiera. Una frase, qualche rigo, poche parole. Un volto sfocato e una voce asincronica. Un profilo. L'Altro: ipotetico e simulato». Così scriveva Ilvo Diamanti in un articolo del 2012 che mi è casualmente ricapitato tra le mani in questi giorni.

Mi tornano in mente spesso queste parole quando salgo su un treno e osservo che la carrozza è piena di persone che parlano al telefono con qualcun altro o guardano con attenzione il proprio PC o tablet o smartphone senza nemmeno uno sguardo per il proprio vicino.

Nessuno sembra ricordare un tempo in cui sedersi in uno scompartimento ferroviario creava una certa emozione al pensiero della conversazione che avremmo potuto avere con i nostri compagni di viaggio – potenziale, inattesa nei contenuti e nell’interlocutore  ma prefigurata con certezza, desiderata e temuta contemporaneamente. Una sospensione del tempo spesso accompagnata da una estemporanea intensa confidenzialità che a volte dava sorprendente accesso alla propria e all’altrui intimità – non ci si sarebbe più rivisti e il ritorno allo scorrere della propria vita ne avrebbe sfumato contorni e protagonisti - un’occasione preziosa per ascoltare ed essere ascoltati senza riserve.

Allora mi è sorto un pensiero, mi è balenato un sospetto: non sarà che l’attenzione e la fortuna in costante aumento che sembrano avere il counseling, il coaching e altre pratiche affini, siano dovute al fatto che sono rimaste una delle scarse opportunità di trovarsi vis a vis con qualcuno e poter parlare di qualcosa di importante che ci riguarda, che ci sta a cuore, senza riserve? Un 'luogo sicuro' in cui potersi mostrare per quello che si è, nel quale levare la maschera e poter essere ascoltati con interesse?

Un'occasione per incontrarsi con la finalità di dedicare del tempo all’ascolto attento l’uno dell’altro, sospendendo il giudizio per poter davvero accogliere – e forse comprendere – i diversi punti di vista, le emozioni, le scoperte che il dialogo favorisce.

Molte volte, nelle mie attività di coaching e di pratica filosofica, alla richiesta di feedback rivolta a coachee e clienti , questi hanno posto un’enfasi particolare proprio sulla qualità speciale di questo tempo ‘autorizzato’ che prende la forma di una pausa preziosa - nel nostro vivere frenetico e solitario - da dedicare all’osservazione attenta, alla riflessione e all’ascolto di sé e dell’altro, alla scoperta di ‘viste’, possibilità e risorse sconosciute e inattese.

Per questo sono attività che mi piacciono così tanto, che mi entusiasmano.

Considero un dono speciale quello che la vita mi fa ogni volta che dedico il mio tempo, e tutta la mia attenzione, a un cliente, perchè prima di essere cliente è persona e quella persona, unica e irripetibile, mi interessa profondamente.

So che sostenendo lei, nel diventare più consapevole dei propri desideri e delle proprie risorse anche io, attraverso l'ascolto profondo, empatico e per questo generativo, uscirò da quell'incontro migliore di quando ci sono entrata.

 

L'immagine é Untitled, un'opera di Robert Barry.